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«Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!»
Con l'inizio della Settimana Santa, il vescovo di Nola Francesco Marino rivolge il suo personale messaggio ai fedeli della diocesi di Nola. Ad accompagnare le parole del presule, una riflessione del direttore della Caritas diocesana, don Arcangelo Iovino: «Il Signore ci permetta di entrare in questa Settimana Santa donandoci occhi nuovi e come il centurione possiamo riconoscere il figlio amato di Dio e in lui riscoprirci tutti figli amati. In un periodo storico in cui molti popoli sono schiacciati dal dolore e dalle ingiustizie a causa di numerosi conflitti, diventa necessario ancora di più accogliere quella speranza che arriva da Dio. In quei territori e nelle nostre comunità giunga la Pasqua come luce per uscire dalle tenebre del male con l'invito ad essere testimoni quotidiani della Parola».
«Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Vado da Pietro per confermare la nostra fede pasquale
Carissimi fratelli e sorelle della chiesa di Nola, la pace sia con voi!
Quest’anno mi è particolarmente caro rivolgermi a voi all’inizio del tempo pasquale con questo saluto del Risorto nel Cenacolo, che la liturgia riserva al vescovo e che egli può pronunciare senza virgolette di citazione, perché consacrato nel mandato di confermare nella fede in comunione con il Successore di Pietro e degli altri Apostoli. Questa comunione sacramentale, effettiva ed affettiva, la avverto particolarmente forte in questi giorni mentre mi preparo a partire per Roma nella II settimana di Pasqua dall’8 all’11 aprile insieme agli altri Vescovi della Campania per vivere l’esperienza ecclesiale della Visita ad Limina Apostolorum.
Quest’appuntamento – a scadenza quinquennale o decennale secondo la richiesta del Pontefice – coinvolge in vari tempi tutti i vescovi del mondo chiamati a risiedere una settimana in Urbe per rinsaldare i vincoli di comunione con il vescovo di Roma che presiede nella carità e per relazionare alla Sede apostolica l’andamento pastorale delle loro chiese particolari. Diventa, tuttavia, essenzialmente un’occasione di preghiera presso le tombe degli Apostoli Pietro e Paolo, la possibilità di un’udienza privata con il papa e un momento di comunione tra noi pastori delle varie chiese diocesane, dimorando in fraternità in queste giornate romane. Negli scorsi mesi della preparazione remota, come prevede il Direttorio della Congregazione per i Vescovi, sono stati coinvolti i vicariati di settore e gli uffici pastorali della curia nel redigere tutto quanto sarebbe servito al vescovo a presentare la nostra chiesa diocesana a papa Francesco e ai suoi collaboratori dei Dicasteri. Al vicario generale che ha coordinato e a tutti coloro che a diverso titolo hanno collaborato va il mio sentito ringraziamento per un lavoro che è stato molto impegnativo anche per me, ma altrettanto utile a far emergere la bellezza della nostra chiesa e a svolgere bene un atto ecclesiale antichissimo, le cui origini risalgono addirittura alla tradizione subapostolica e già formalizzate al Concilio di Roma nell’anno 745.
Mentre preparo idealmente la valigia, mi sono chiesto più volte che valore abbia ancora oggi recarsi a Roma per presentare al papa l’andamento decennale del nostro cammino di chiesa. Mi piace, dunque, condividere con voi alcune riflessioni frutto della mia meditazione che in un certo senso rendono questa visita non un atto formale e burocratico, ma un vero e proprio avvenimento ecclesiale che spiritualmente coinvolga tutti noi pastori, religiosi e laici, così come deve essere correttamente inteso.
Spero possa aiutare a tal scopo offrirvi alcuni passi delle Scritture nei quali ritroviamo l’annuncio della Risurrezione sempre abbinato alla dicitura “Risorto… e apparso a Pietro”. In questo lemma di antichissima formulazione è delineato lo schema fondamentale della trasmissione del kerygma. In altre parole, la fede nella Risurrezione e la conseguente missione ecclesiale possono essere veramente talo se il garante della comunione e della credibilità è l’Apostolo scelto da Gesù per pascere tutto il gregge; egli oggi vive ed è presente nella persona del suo Successore, il papa Francesco.
- La visita dei discepoli di Emmaus a Pietro e agli Undici
L’evangelista Luca concludendo il suo racconto del tramonto di Pasqua annota: «[I due] partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!”» (24, 33). Più che preoccuparsi di descrivere puntualmente l’ordine cronologico delle apparizioni – che non ritroviamo nel terzo vangelo rispetto agli altri sinottici – Luca mette sulla bocca degli Apostoli e degli altri discepoli presenti la formula ufficiale dell’annuncio pasquale: «è apparso a Pietro», quasi a voler dire principalmente che la “prova” della veridicità dell’annuncio risiede primariamente nell’autorevolezza della testimonianza petrina. La credibilità che ha Pietro, tuttavia, non gli proviene da proprie particolari doti caratteriali conquistatesi sul campo (per questo Gesù gli dice: «Né carne né sangue te lo hanno rivelato»), ma da un dono assolutamente gratuito che il Signore stesso gli aveva fatto: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (cfr. Mt 16, 13-19). È bello sottolineare che sebbene Pietro umanamente avesse rinnegato anche lui Gesù – e questo la comunità delle origini non lo dimenticherà facilmente – c’è, tuttavia, un accordo di autorevolezza che oltre i suoi limiti personali gli riconosce il primato nel confermare nella fede per volontà stessa di Dio. Questo significa che nella chiesa da sempre l’autentica comprensione di fede non ha mai confuso i profili personalistici con il mandato divino di confermare nella fede. Voglio dire che l’autorevolezza di Pietro non risiede solo nella grandezza della sua persona a livello umano, né è sminuita dai suoi limiti, ma piuttosto nel compito spirituale che gli è affidato. Siamo sempre “vasi di creta” nei quali il Signore riversa la sovrabbondanza del suo dono ministeriale. Ci aiuti questa considerazione a recuperare un clima di benevolenza e di docilità filiale verso i pastori che nel tempo cambiano nome e volto, che hanno limiti e possibilità, ma sono nei secoli sempre “Pietro e i suoi fratelli”.
Per noi chiesa italiana questa visita s’inserisce nel vivo del cammino sinodale che in quest’anno pastorale ha come icona proprio il racconto di Emmaus. È significativo che ritornati a Gerusalemme gli Undici non chiedano al discepolo Cleopa e all’altro cosa fosse successo e perché delusi fossero scappati per ritornarsene alla loro casa, ma a loro offrano piuttosto un nuovo annuncio del kerygma il quale in effetti li ricolloca nuovamente in comunione con gli altri nella gioiosa condivisione pasquale. È questo il compito di una chiesa in uscita, a cui costantemente ci stimola papa Francesco: non recriminare mancate presenze, non accusare di altrui fughe, non sottolineare smarrimenti collettivi, veri o presunti, ma ritornare ad annunciare a tutti e nonostante tutto la bellezza di quell’avvenimento che ha cambiato le nostre vite e che ci tiene costantemente uniti, al di là delle defezioni e addirittura dei peccati. Ecco perché abbiamo bisogno di Pietro e del suo magistero. A volte anche noi come i discepoli quel giorno a Cesarea di Filippo non sappiamo dire a parole nostre chi sia Gesù per noi, ci pare che tutto debba ridursi a dire semplicemente cosa la gente pensa su Lui o fraintende di Lui; spesso siamo esperti delle narrazioni sociologiche, delle diagnosi pastorali, ma ci manca la parola quando si tratta di professare da credenti cosa abbiamo sentito dentro nell’incontro spirituale con il Signore. Non riduciamo mai l’annuncio del cristianesimo a un contenuto moralistico e formale, tanto meno ad una tecnica di marketing. Come e con Pietro facciamoci voce per dire a Gesù a nome di tutti: «Tu sei il Cristo». Questo è il compito primario della pastorale.
2. Attendere Pietro per entrare con lui nel sepolcro vuotoIn quest’impegno di evangelizzazione andare a Roma significherà per noi chiesa di Nola rimodulare il nostro passo di testimonianza su quello di Pietro. Mi torna in mente a questo proposito la scena della corsa al sepolcro vuoto: «Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (Gv 20, 3-8). La chiesa è chiamata sempre ad “attendere Pietro” non si tratta semplicemente di rallentare il passo o di aspettarsi continui pronunciamenti pontifici per capire come muoversi… ma di camminare realmente insieme a colui che è il garante della comunione e che ha il mandato di “prendere il largo”. Pietro va sempre più “lento”, non nel senso dell’attardarsi ma per il fatto carico di tutta la chiesa che è chiamato a portare sulle sue spalle. Spesso le nostre fughe in avanti hanno molto l’affanno di accelerate solitarie che finiscono per lasciare alle spalle la tradizione di fede, specialmente le lentezze dei semplici e deboli, che, invece, ci chiedono di non essere sorpassati, piuttosto di entrare tutti insieme nel sempre nuovo della luce del Risorto. È la chiesa con Pietro e mai senza di lui che riesce a vedere i segni autentici della Risurrezione in un sepolcro vuoto e a permettere a tutti di leggerli profeticamente, attraverso il magistero, come l’inizio di una nuova storia. Amare la chiesa, dunque, significa anche saper attenderla: aspettare i suoi tempi, camminare con lei e mai oltre lei. Chi non ha il peso della responsabilità di condurre altri, pensiamo al papa e ai vescovi, certamente “corre di più”, ma purtroppo a volte corre anche troppo e i suoi personalissimi traguardi, per quanto talora segnino delle vittorie, rischiano di tradire il senso e il valore ecclesiale del percorso. Giovanni è il discepolo che ama il Signore e quindi sa condividere quest’amore desiderando che tutti vedano bene ciò che lui ha intravisto nell’amore. Questa non è un’insicurezza psichica, è proprio un’esigenza d’amore. Chi ama, quando chiede conferme su l’oggetto del proprio amore lo fa, non perché ne dubita ma per attirare altri su quella persona o realtà. Abbiamo bisogno oggi di amare la chiesa veramente, di aspettarla, di fare a volte anche un passo più lento per il bene della comunione. Non abbiamo bisogno di battitori liberi, di eccellenze della diagnosi teologica, di punte di diamante che spaccano tutto con le loro intuizioni: ogni proposta di cambiamento, ogni stimolo di crescita, ogni autentico spirito di innovazione ha senso solo se serve a vedere e far vedere meglio la risurrezione e a farlo aspettando la parola di Pietro. S’inserisce in questa logica l’antico adagio del cum Petro e sub Petro.
3. Videre Petrum per non correre o aver corso invano
Amare la chiesa significa inoltre sentirsi in comunione con lei sempre. Come disse papa Benedetto XVI nell’ultima udienza generale: “Chi ama non è mai solo, non lo è in vita e neppure nella morte”. La Visita ad Limina, pertanto, è un’occasione anche per ravvivare la cattolicità, che deve rappresentare sempre il valore dell’universalità della chiesa in quel rapporto stupendo di pericoresi, una danza circolare e reciprocamente inclusiva, tra chiesa universale e chiese particolari e viceversa. Vedere Pietro per vedere la chiesa tutta. Ce lo ricorda il Concilio Vaticano II nella Costituzione Dogmatica Lumen gentium. Su questo punto mi preme insistere. Anche Paolo, con la sua determinazione e originalità pastorale racconta nella Lettera ai Galati, che, dopo tre anni dalla sua conversione, si recò a Gerusalemme per “vedere Pietro” e trascorse quindici giorni con lui, mosso dal desiderio di conoscerlo e di confrontarsi (Cfr. Gal 1, 18). Ancor più suggestivo è quello che scrive più avanti: «Quattordici anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Bàrnaba, portando con me anche Tito: vi andai però in seguito a una rivelazione. Esposi loro il Vangelo che io annuncio tra le genti, ma lo esposi privatamente alle persone più autorevoli, per non correre o aver corso invano» (2, 1-2). Come è bello leggere in Paolo questo desiderio di avere conferma per evitare di correre o aver corso invano! Certo l’incontro con Pietro per Paolo, come ci racconta lui stesso in Galati, rappresenta anche un momento di parresia sinodale attraverso la quale non mancò l’Apostolo delle Genti di dire con franchezza quello che pensava allo stesso Pietro; anche per questo rendo grazie a Dio ben sapendo lo stile di disponibilità all’ascolto con il quale papa Francesco ci attende.
È questo lo spirito con il quale io mi appresto a partire. Racconterò a papa Francesco e ai suoi collaboratori dei Dicasteri vaticani lo sforzo della nostra chiesa nell’annunciare il Vangelo in un mondo che cambia. Parlerò del nostro sinodo diocesano. Con me porto le statistiche dei sacramenti, i documenti prodotti in questi anni, ma oltre lo stato della diocesi nella mia bisaccia di pellegrino consegno ai piedi degli Apostoli i volti e le storie raccolte negli incontri sinodali vissuti nelle tre zone pastorali, gli incontri con i fidanzati e le famiglie, le ansie e le fatiche dei presbiteri e dei religiosi, le attese e le speranze dei giovani, la saggezza e la prudenza degli anziani. Al successore di Pietro, presentando la nostra amata chiesa nolana, porrò la stessa domanda che il mio venerato predecessore mons. Umberto Tramma rivolse nella cattedrale di Nola il 23 maggio 1992 a papa Giovanni Paolo II, mutuando la domanda all’Apostolo al termine del discorso di Pentecoste: «Che cosa dobbiamo fare» (At 2,37). Sono certo che, come in quella storica visita nella quale San Giovanni Paolo II mise da parte il discorso che aveva preparato e improvvisò una risposta a braccio la quale finalmente tracciò un cammino di rinnovato entusiasmo, così anche questa volta papa Francesco saprà indicarci nuovi e ulteriori orizzonti per il nostro cammino di chiesa.
Carissimi fratelli e sorelle, vi porto con me dal papa! A Roma ci sarete anche voi, che siete la realtà viva della nostra chiesa diocesana “così com’è”. Mi permettete di far mia in questo momento una cara espressione del vescovo della mia giovinezza che mi ordinò presbitero e al quale sono rimasto affezionato e grato, mons. Antonio Cece, di venerata memoria, originario di Cimitile e vescovo di Aversa. Egli lavorò con passione per attuare l’autentico spirito del concilio Vaticano II, e sempre radicato nella tradizione patristica e teologica affermava risoluto, come punto di partenza di ogni cambiamento: “amo la chiesa così com’è”, cioè con il suo carattere divino, ma veramente umana, radicata mediante lo Spirito nel Verbo incarnato. Senza quest’amore che definirei “preventivo”, ogni riforma ecclesiale rischia di diventare ideologia più che nuova evangelizzazione.
Questo mio pellegrinaggio, in quest’anno della preghiera che prepara il Giubileo del 2025, prelude anche in un qualche modo all’anno prossimo quando, piacendo a Dio, varcheremo insieme come comunità diocesana la porta santa. Già da ora sentiamoci, vescovo e popolo, “pellegrini di speranza” nella Città canta. Mi affido all’intercessione del nostro patrono san Paolino che aveva in grande considerazione la visita ad limina da lui vissuta costantemente, come ci raccontano le fonti, recandosi a Roma ogni anno in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo. Sentitevi nel mio cuore di padre durante la celebrazione eucaristica quotidiana nelle basiliche pontificie. In modo particolare unitevi alla mia voce quando con gli altri confratelli vescovi della Campania rinnoveremo la fede professando il Credo nella cripta della basilica vaticana davanti alla tomba dell’apostolo Pietro. Pregate per il vostro vescovo quando chiederò nella basilica di San Paolo la speciale assistenza dell’Apostolo delle Genti affinché sappia portare il vangelo a tutti, specialmente ai lontani. Pregate con me quando affiderò alla Salus Populi Romani gli ammalati e tutte le fragilità della nostra diocesi. A Maria, Regina degli Apostoli, affidiamo insieme papa Francesco, perché il Signore lo conservi a servizio del delicato compito di presiedere nella carità tutte le chiese affidate alla sua sollecitudine pastorale.
Buona Pasqua di Risurrezione a tutti e a ciascuno!
+ Francesco Marino